Pietro Caprara si racconta a Palmen in Motorradsport

Pietro Caprara

Poche volte si ha la fortuna di poter intervistare un capotecnico che ha alle spalle anni di esperienza e successi nel Motomondiale, ha lavorato con piloti come Casey Stoner e Alex De Angelis (per citarne due) e sente ancora di avere molto da dare e di voler raggiungere altri obiettivi. Di chi sto parlando? Di Pietro Caprara, che dopo anni di Motomondiale lavora adesso nel Mondiale Superbike col team Puccetti Racing, ora diventato Kawasaki WorldSBK Team dopo l’investitura di squadra di riferimento della casa di Akashi.

Una lunga carriera, che Pietro Caprara ha accettato di raccontare a Palmen in Motorradsport tra piloti di successo, cambi regolamentari e nuove sfide.

 

Ciao Pietro! Innanzitutto, com’è iniziata questa lunga carriera nelle corse?

È stata all’inizio una passione. Inizialmente ho provato anche a correre, anche se non mi ritengo un pilota, ma semplicemente uno che girava in pista con tanta passione. Poi, studiando e avvicinandomi alla meccanica, ho visto che mi piacevano tanto le parti riguardanti la messa a punto, la modifica e la ricerca della performance e in più avevo un cugino che era già nel mondo delle auto, quindi ho iniziato insieme a lui ad avvicinarmi all’acquisizione dei dati nelle corse automobilistiche. Inoltre, ho fatto la tesi su un sollevatore idraulico della Bugatti all’epoca, che era vicina anche alla zona dove ero io. Alla fine ho detto: “OK, va bene, muoviamo un po’ le cose”. C’erano alcune opportunità non solo nelle auto, ma anche nelle moto per contribuire all’acquisizione dei dati e alla fine mi sono buttato col team di Kenny Roberts, che all’epoca correva nella classe 500 con la Yamaha, non essendo ancora passato a Modenas e Proton KR, e aveva anche un test team con Jean Michel Bayle. Lì mi sono trovato a un bivio e a dover scegliere se uscire o meno dalla mia zona di comfort. Alla fine mi sono buttato e ho rischiato tanto, perché sai che se sbagli sei fuori dopo un secondo soprattutto se non hai nessuna esperienza, ed è andata bene. Inizialmente pensavo di farlo per due anni e poi smettere, ma da allora sono passati 30 anni…e non ho ancora detto basta!

 

Qual è un cambiamento importante che hai notato tra i tuoi inizi ed oggi?

Allora bisognava gestire tante variabili che ad oggi, per il cambiamento che ha avuto a livello regolamentare il motociclismo, sono più semplici. Ciò pero non vuol dire che sia più facile lavorare, perché quando le cose sono più semplici, a fare la differenza sono la cura del dettaglio e il lavoro di squadra. Per questo ritengo che non si possa paragonare un’epoca con l’altra e dire se era più facile o difficile. Forse prima i tecnici erano più attivi, essendoci più possibilità rispetto ad oggi, ma adesso la cura del dettaglio è più impegnativa.

 

All’inizio sei partito come telemetrista, ma poi sei diventato capotecnico. Com’è stata la transizione?

Sono diventato capotecnico perché mi attirava molto la parte organizzativa. Mi piaceva l’idea di avere una relazione diretta col pilota e lo staff e di poter anche fare le scelte finali sull’assetto del veicolo, e quindi di avere non dico tutto sotto controllo, ma almeno un quadro completo della situazione. È proprio questo che mi è mancato un po’ all’inizio nell’automobilismo, perché eravamo in tanti, ma ho invece trovato nelle moto. Poi ho lavorato con piloti come Luca Cadalora, Simon Crafar, Régis Laconi, Norick Abe, Stefano Perugini, Casey Stoner, Andrea Dovizioso e per tanti anni Alex De Angelis e con loro ho vissuto una sorta di “evoluzione” dal punto di vista emotivo che è andata avanti anche col team VR46 e per tanti con Aprilia, dalla RS Cube fino alla MotoGP e con piloti come Aleix Espargaró, Andrea Iannone e Bradley Smith.

 

Hai lavorato con tanti piloti e nomi molto importanti, ma c’è qualcuno in particolare che ti ha lasciato il segno? E c’è qualche aneddoto in particolare che vorresti raccontare?

Inizio subito dicendo che non ho un pilota preferito, Nutro però un affetto particolare per Alex De Angelis, con cui ho condiviso diverse categorie e diverse emozioni. Abbiamo iniziato con la 250 e poi siamo passati in MotoGP lui col team Gresini Racing e io con Dovizioso, quindi ci siamo separati momentaneamente. Poi però ci siamo ritrovati in Moto2, una categoria allora nuova e con diversi regolamenti da capire, approfondire e riuscire a ottimizzare, e questo ha richiesto un cambio di mindset poiché non era detto che le cose che avevano funzionato in 250cc avrebbero funzionato in Moto2. È stata un’esperienza molto formativa per entrambi.

Un altro pilota di cui ho un forte ricordo è sicuramente Casey Stoner, perché insieme abbiamo trovato il modo di affinare quella che era la mia capacità di sintesi e di reattività con un pilota così forte, e da parte sua c’è stata una crescita nell’acquisire la capacità di sintesi della serie: “Ho cinque problemi, mettimene a posto tre che sugli altri due ci guido sopra io”. Era questo un po’ lo scambio tra me e lui. Ha funzionato alla grande e nel 2005 ci siamo trovati a lottare per il mondiale contro ogni pronostico, poi lui è passato in MotoGP sempre con LCR e ha ottenuto quello che è riuscito a ottenere, tra cui soprattutto due titoli in MotoGP. Ci eravamo promessi di ritrovarci in futuro, ma non è stato possibile poiché ha smesso di correre.

Un altro pilota importante è Andrea Dovizioso, con il quale ho tutt’ora un ottimo rapporto, e posso dire lo stesso di Andrea Iannone. Con Iannone sentiamo di avere un conto in sospeso: avevamo un percorso già pianificato e strutturato, ma poi è arrivata la doccia fredda della squalifica. Ricordo ancora la telefonata di Massimo Rivola mentre ero via con mia moglie…

Ho anche lavorato con Stefano Perugini, Simone Sanna e altri grandi piloti che ho supportato negli anni, attraverso i cambiamenti regolamentari, sia sportivi sia tecnici, dal due tempi al quattro tempi. MotoGP, Moto2, poi MotoGP ancora, fino alla Superbike. Come ho detto prima, pensavo di fare un paio di anni e poi smettere…E alla fine di anni ne sono passati molti di più!

 

Di tutte le categorie dove hai lavorato, quale ha rappresentato per te la sfida più difficile?

Tecnicamente la sfida più difficile è stata la prima stagione con Dovizioso in MotoGP. Era l’ultimo anno della battaglia tra Bridgestone e Michelin e quindi c’era un po’ la rincorsa folle, ogni fine settimana, ad utilizzare una quantità di gomme incredibile. Con il numero di gomme contingentato però dovevi scegliere le tue “carte” già al giovedì e lì potevi prenderci come potevi sbagliare. Dovevi basarti su dati certi e informazioni e “negoziare” al meglio col costruttore di pneumatici, cosa molto difficile perché magari i nostri dati ci portavano a scegliere una certa mescola all’anteriore, con cui “Dovi” si trovava bene, ma poi veniva fuori che il costruttore quella mescola non l’aveva portata perché secondo loro non era adatta al tracciato. E lì bisognava organizzarsi con tempi ristrettissimi col trasporto e l’omologazione…Una sfida incredibile, ma alla fine è andata bene. Utilizzando quella gomma anteriore sul 90% delle piste e una gomma posteriore diversa secondo le varie situazioni, Dovizioso è riuscito a trovare una certa costanza di rendimento e a finire sempre nella top 10 e quinto nel mondiale.

Un’altra operazione difficile l’ho affrontata nel 2018 con Aleix Espargaró, dato che l’Aprilia era in evoluzione e si attendeva la nuova moto. Infine menziono l’ultimo anno della RS Cube con Jeremy McWilliams: la moto era bellissima e di base ottima, ma l’affidabilità era un punto critico e l’ansia che potesse rompersi questo o quello non ti faceva dormire la notte…

 

Era il 2004, giusto?

Sì, e in quel periodo ci fu anche il passaggio dalla famiglia Beggio al gruppo Piaggio, che fu una transizione abbastanza lineare in sé, ma comunque complessa dal punto di vista del personale con anche le dimissioni di Jan Witteveen, che per me è sempre stato un mentore. C’era un po’ di incertezza su come sarebbe stato lavorare con altre persone, ma alla fine sono andato avanti con loro ed è andata bene.

 

Pietro Caprara
Con Andrea Dovizioso in MotoGP (2008)

 

Tu hai anche lavorato sia in 250, sia in Moto2 e ogni tanto si discute su quanto la Moto2 prepari i piloti per la MotoGP rispetto a come li preparava la 250. Cosa pensi a riguardo?

Nei primi anni la Moto2 non è stata per nulla formativa, perché era un monomarca con prestazioni anche minori di una Supersport. La 250 era invece una categoria molto formativa che preparava il pilota per qualunque campionato, non solo per la MotoGP. Poi in quegli anni in MotoGP si usavano i motori da 800 centimetri cubici e il regolamento era piuttosto aperto proprio come in 250, mentre la Moto2 sembrava davvero un trofeo monomarca. Adesso però la Moto2 è un po’ diversa, perché è sempre una categoria dove le moto sono quasi tutte uguali, è vero, ma la ricerca del dettaglio fa in modo che il pilota stesso faccia la differenza e in più sono arrivati alcuni cambiamenti come un’elettronica un po’ più aperta e le gomme Pirelli, mentre la MotoGP è un po’ più chiusa a livello regolamentare rispetto a qualche anno fa. In generale l’approccio del pilota nei confronti della Moto2 è molto cambiato e la sua configurazione attuale fa sì che il pilota cresca più velocemente e sia più preparato al passaggio alla MotoGP. Diciamo che adesso il passaggio dalla Moto2 alla MotoGP è meno traumatico rispetto a quello che si faceva dalla 250 alla MotoGP e la 250 era dal canto suo più selettiva.

 

C’è stata anche un’importante evoluzione nella classe regina del Motomondiale, col passaggio dalla 500 alla MotoGP e poi l’alternanza di diverse cilindrate nella stessa MotoGP. Come hai vissuto tali cambiamenti?

In generale si seguiva la ricerca della performance in termini sia motoristici che ciclistici, in modo da garantire il pacchetto migliore. L’ossessiva ricerca della performance di tutti i costruttori si è poi trasformata: i regolamenti si sono fatti più restrittivi, le aree di lavoro si sono fatte sempre più ridotte e per queste servono un investimento maggiore, un know-how maggiore e l’ossessiva ricerca di quel dettaglio che fa la differenza. Se tu consideri che le gomme sono le stesse, i fornitori di sospensioni sono due o forse tre e i telai, la disposizione delle masse e le specifiche del motore obbligano a rimanere entro una certa finestra, le moto sono molto simili come performance. Quale parte rimane fuori? L’aerodinamica. E lì puoi investire tanto. È una parte relativamente piccola, ma paradossalmente oggi è la finestra più larga sulla quale si può lavorare.

 

Quindi nei primi anni della MotoGP si cercava di più la performance con il complesso tra motore, ciclistica e tutto quanto, mentre adesso si lavora maggiormente sull’aerodinamica.

Esatto. Ad esempio ricordo che in Honda sostituivamo i motori dopo 350 chilometri per la revisione delle valvole e comunque della parte meccanica. Adesso invece i motori sono contingentati e una volta che un motore è punzonato te lo tieni, nasce e muore. In quell’area c’è adesso un regolamento molto restrittivo, quindi adesso si lavora maggiormente su una finestra che è piccola, ma paradossalmente anche la più grande, che è appunto l’aerodinamica.

 

Questa è un po’ la direzione che si è presa. E tu torneresti indietro?

Con il cuore io tornerò sempre alla 250cc a due tempi. Prenderò degli insulti, lo so, però con il cuore tornerò sempre a quella categoria, perché a livello emotivo, di soddisfazione e di impegno ha rappresentato la mia massima espressione. Se avessi la bacchetta magica, tornerei lì.

 

Mentre invece, in tempi più recenti, sei passato dopo l’avventura in MotoGP al Mondiale Superbike, dove lavori adesso col team di Manuel Puccetti. Cosa ti ha spinto a fare questo passaggio da un paddock all’altro? E come ti stai trovando?

Il passaggio è dovuto ad uno stop che mi sono dato nel 2021, in un periodo in cui ho sentito il bisogno di tornare a studiare. Ho effettuato degli studi personali a livello di Master, ho preso i 3 certificati di NLP (Natural Language Processing, ndr) a livello internazionale…L’ho fatto perché sentivo il bisogno di capire cosa mi mancasse in quel momento per crescere personalmente, e quindi di studiare ancora. In quel periodo ero un po’ in conflitto: non volevo tornare alle gare, ma allo stesso tempo facevo fatica a starne lontano.

Poi ho conosciuto Manuel Puccetti (titolare dell’omonimo team, ndr) e abbiamo fatto alcune cose insieme. Ho iniziato sostituendo il capotecnico di Lucas Mahias in una gara, poiché era positivo al Covid, e mi sono trovato subito molto bene. Mi sono piaciute l’atmosfera e la squadra, quindi pian piano ci siamo accordati per una collaborazione tra team manager e capotecnico. Adesso abbiamo trovato un buon equilibrio, perché la nostra collaborazione mi permette anche di gestire la formazione che offro ai miei studenti. Inoltre ci saranno sviluppi molto importanti, perché finalmente la squadra di Manuel Puccetti è diventata team di riferimento Kawasaki e questo ha premiato tutti gli anni di lavoro e gli investimenti che ha fatto anche Puccetti stesso. È come se si fosse chiuso un cerchio. In più negli ultimi anni ho avuto un contratto diretto con Kawasaki e questo ci ha “alleggeriti” anche a livello di apertura e serenità. Se dovessi scegliere cosa fare, farei esattamente quello che sto facendo adesso.

 

Pietro Caprara
Con Garrett Gerloff, pilota del Kawasaki WorldSBK Team per la stagione 2025.

 

Nel mentre hai anche iniziato la tua scuola di formazione, la MGP Legacy. Cosa puoi dire a riguardo?

Volevo dare quello che io non ho avuto all’inizio della mia carriera: in quella fase prendevo pezzi a destra e a sinistra, ho rischiato, sono rimasto in piedi…È andata bene, ma senza gli errori che ho commesso avrei avuto una carriera più lineare, cosa che invece vorrei aiutare i miei studenti ad avere. È partita come formazione per diventare capotecnico, ma poi è diventata una formazione più completa anche a livello umano, perché le doti tecniche le puoi acquisire anche autonomamente, ma a livello di soft skills serve la formazione giusta e una perfetta gestione di sé stessi. 

 

Cosa cerchi di insegnare maggiormente a chi vuole avvicinarsi a questo mondo?

Essere flessibili e imparare a comunicare e ascoltare. Spesso noi come persone non siamo capaci di ascoltare, e mi ci metto anche io pur essendo migliorato tanto durante il mio percorso, ed è importante lavorare su questa cosa. Inoltre è importante gestire bene le proprie emozioni, perché questo fa una grande differenza sotto pressione e tra esprimere appieno il proprio potenziale e farlo solo in parte.

 

Tornando invece la alla tua carriera, ci sono ancora dei traguardi che vorresti raggiungere?

Sulla mia carriera mi ritengo soddisfatto al 95%. Ho avuto anche ruoli diversi da quello attuale, ma mi stimola di più essere a contatto col pilota. Credo però che il ruolo che mi si sta cucendo meglio addosso, come se fossi entrato io nella mia identità o la mia identità fosse venuta fuori meglio, è quella di formatore. Non mi sento un coach, ma sono contento di aiutare qualcuno ad eccellere nel suo mondo. La parte più bella è quando vedo che raggiungono i risultati da loro sperati, cosa che per me vale quanto una vittoria.

 

In conclusione, chi vuoi ringraziare in particolare per tutto quello che sei riuscito a vivere in tutti questi anni e che vivrai ancora negli anni a venire?

Devo ringraziare prima di tutto la mia famiglia, perché nonostante fossero preoccupati per le scelte che ho fatto quando ero ragazzo, hanno compreso bene il mio orientamento e mi hanno supportato. Ringrazio anche mio padre, che mi ha lasciato dei valori molto importanti come l’onestà e la stretta di mano per sancire un accordo. Ringrazio anche me stesso, perché ci ho messo molto impegno e non ho mollato neanche quando in tanti lo avrebbero fatto. E infine ringrazio mia moglie, che mi sostiene pienamente ed è anche riuscita a farmi approcciare certe difficoltà e certi aspetti in modo migliore. Ecco, forse metterei lei al primo posto!

 

Palmen in Motorradsport ringrazia sentitamente Pietro Caprara per la disponibilità e gli augura il meglio per la sua attuale posizione e il futuro.